Era il gennaio del 2000 quando un biondo signore dagli occhi azzurri, camminava sorridendo per le vie di Spoleto. In testa un basco e sulle spalle un grosso zaino che pareva più un sacco. Si presentava così un personaggio destinato a entrare nelle case e nei cuori di molti ma, soprattutto, nell’immaginario collettivo perché anche chi non ha mai visto una puntata sa chi è Don Matteo.
La serie di Rai1 prodotta da Lux Vide ha compiuto 25 anni e per 13 delle 14 stagioni ha avuto per protagonista Terence Hill. Solo nell’ultima ha lasciato il testimone a Raoul Bova, che qui diventa don Massimo: poteva essere un rischio, invece gli ascolti — quello medio complessivo è di 6,7 milioni di telespettatori, pari al 27% di share — hanno confermato che Don Matteo è ancora un successo. «Ma questa parola a me non piace. Anzi, mi dà fastidio», spiega Terence Hill, a cui si deve gran parte di questo risultato.
«Di certo se prima, per strada, c’era chi mi chiamava Trinità, poi qualcuno ha iniziato a chiamarmi don Matteo». Eppure, tra il pistolero più veloce del west, la mano destra del diavolo, e il prete un po’ detective, braccio destro dei carabinieri della cittadina umbra, c’è più di una analogia: «Volevo che il mio fosse un don molto attivo — spiega Hill, che oggi ha 85 anni —. Per questo, al posto del cavallo, ho pensato a un mezzo che mi accompagnasse con cui il corpo continuasse ad essere atletico». La bici è diventata un simbolo di Don Matteo, serie esportata in 15 Paesi e di cui esistono numerose versioni straniere (il remake polacco ha superato per numero di edizioni anche quelle italiane: è alla 22esima stagione).
Dopo tanti anni, la serie ha lasciato all’attore «molte amicizie. Sono credente, recitavo calandomi veramente in quello che succedeva. Però, dopo anni, sentivo che era tempo di cambiare e lasciare don Matteo prima che la gente si stufasse di lui». Oggi le manca? «No, sono contento di averlo fatto ma non mi manca. Poi ho visto le puntate con Raoul e credo abbia lavorato molto bene, costruendo un personaggio diverso».
Era una eredità non semplice, Bova l’ha raccolta con l’intenzione di non cancellare il passato: «Sostituire un attore così amato, che ha fatto compagnia a tante generazioni, non era facile e non sarei mai stato all’altezza di subentrargli. Proprio Terence mi suggerì di portare avanti la mia storia. Per questo è nato don Massimo, per non cancellare don Matteo, la sua traccia che deve rimanere».
Non solo, Bova spera anche in un miracolo: «Mi piacerebbe molto che Terence potesse rientrare, anche per qualche puntata. Il mio don Massimo è un uomo che ha ancora bisogno di imparare». Del resto, spiega, «un po’ tutti abbiamo bisogno di don Matteo. La gente vuole figure rassicuranti e sincere, specie in periodi di incertezza come questo». E sincero, è anche il suo rapporto con la fede: «L’ho sempre cercata e la metto spesso in dubbio, per potermi fare domande. La mia natura è protesa verso l’aiuto di chi è in difficoltà ed è così che immagino anche il mio prete: mi piace la preghiera ma preferisco chi fa del bene tra la gente».
Ottima attitudine per arrivare allo stesso numero di stagioni del suo predecessore? «Chissà», chiosa Bova. Chi, oltre a lui, sarebbe felice di una reunion è Luca Bernabei, amministratore delegato di Lux Vide: «Ma conosco Terence, non succederà. Da anni faceva capire di voler lasciare il ruolo e ogni volta facevamo orecchie da mercante. A un finale di stagione, proprio per il timore potesse non fare la successiva, lo avevamo fatto volare via in elicottero».
Il produttore sa che Hill ha dato molto a Don Matteo: «Pensare che, inizialmente, avevamo pensato a Lino Banfi... Non ci sembrava vero avere un mito del cinema: non ha mai voluto una controfigura, in nessuna delle scene d’azione. Ogni volta che andava con la bici giù per le scale stavamo con il fiato in gola».
Inizialmente nessuno pensava che la serie sarebbe stata tanto longeva: «Mio padre Ettore, che in Rai aveva portato Padre Brown, mi ha insegnato che la gente va mandata a letto serena. Noi parliamo di due grandi istituzioni: la giustizia unita alla misericordia divina. Non ci si assicura solo di trovare i colpevoli ma si guarda alla loro redenzione».
Ingredienti semplici per una serie che «non è mai cambiata ma si è evoluta, per cui ringrazio gli sceneggiatori Mario Ruggeri e Umberto Gnoli. Dopo 25 anni facciamo ancora il 25% di share». Una garanzia per la Rai, conferma Maria Pia Ammirati di Rai Fiction: «Una vita televisiva di 25 anni e 15 stagioni è un fenomeno che impressiona. Nessuno più di Don Matteo incarna un’idea equilibrata della vita, fatta di accoglienza, solidarietà, comprensione, responsabilità e perdono».
Era enero de 2000 cuando un caballero rubio de ojos azules caminaba sonriente por las calles de Spoleto. En la cabeza una boina y sobre los hombros una gran mochila que más bien parecía un saco. Era la presentación de un personaje destinado a entrar en los hogares y los corazones de muchos pero, sobre todo, en el imaginario colectivo porque incluso quienes nunca han visto un episodio saben quién es Don Matteo.
La serie de Rai1 producida por Lux Vide cumple ahora 25 años y durante 13 de sus 14 temporadas ha estado protagonizada por Terence Hill. Sólo en la última dejó el testigo a Raoul Bova, que aquí se convierte en Don Massimo: podría haber sido un riesgo, pero en cambio los índices de audiencia -la media global es de 6,7 millones de espectadores, o un 27% de share- han confirmado que Don Matteo sigue siendo un éxito. «Pero no me gusta esta palabra. De hecho, me molesta», explica Terence Hill, a quien se debe gran parte de este resultado.
«Ciertamente, si antes, en la calle, había quien me llamaba Trinidad, luego alguien empezó a llamarme don Matteo». Sin embargo, hay más de una analogía entre el pistolero más rápido de Occidente, mano derecha del diablo, y el sacerdote un poco detective, mano derecha de los Carabinieri en la pequeña ciudad de Umbría: «Quería que el mío fuera un don muy activo», explica Hill, que ahora tiene 85 años, «por eso, en lugar de un caballo, pensé en un vehículo que me acompañara, uno cuyo cuerpo siguiera siendo atlético». La bicicleta se ha convertido en un símbolo de Don Matteo, una serie que se ha exportado a 15 países y de la que existen numerosas versiones extranjeras (el remake polaco ha superado incluso a las italianas en número de ediciones: va por su 22ª temporada).
Después de tantos años, la serie le ha dejado al actor «muchas amistades. Soy creyente, actuaba sumergiéndome de verdad en lo que ocurría. Sin embargo, después de años, sentí que era el momento de cambiar y dejar a don Matteo antes de que la gente se aburriera de él'. ¿Le echa de menos hoy? «No, me alegro de haberlo hecho pero no lo echo de menos. Luego vi los episodios con Raoul y creo que trabajó muy bien, construyendo un personaje diferente'.
No era una herencia fácil, Bova la recogió con la intención de no borrar el pasado: «Sustituir a un actor tan querido, que hizo compañía a tantas generaciones, no era fácil y yo nunca habría estado a la altura de tomar su relevo. El propio Terence me sugirió que continuara mi historia. Para eso nació don Massimo, no para borrar a don Matteo, su huella que debe permanecer».
Y no sólo eso, Bova también espera un milagro: «Me encantaría que Terence pudiera volver, aunque fuera por unos episodios. Mi don Massimo es un hombre que todavía tiene que aprender». Al fin y al cabo, explica, «todos necesitamos un poco a don Matteo. La gente quiere figuras tranquilizadoras y sinceras, sobre todo en tiempos de incertidumbre como estos». Y sincera es también su relación con la fe: 'Siempre la he buscado y a menudo la cuestiono, para poder hacerme preguntas. Mi naturaleza se inclina a ayudar a los que tienen dificultades y así me imagino también a mi sacerdote: me gusta la oración, pero prefiero a los que hacen el bien entre la gente'.
¿Buena actitud para alcanzar el mismo número de temporadas que su predecesor? «Quién sabe», concluye Bova. Quien, aparte de él, se alegraría de un reencuentro es Luca Bernabei, director general de Lux Vide: «Pero conozco a Terence, no va a suceder. Llevaba años dejando claro que quería dejar el papel y cada vez hacíamos oídos sordos. En el final de una temporada, precisamente porque temíamos que no hiciera la siguiente, le hicimos salir volando en helicóptero».
El productor sabe que Hill le ha dado mucho a Don Matteo: «Pensar que, inicialmente, habíamos pensado en Lino Banfi... No nos parecía real contar con una leyenda del cine: nunca quiso un doble, en ninguna de las escenas de acción. Cada vez que bajaba las escaleras en bicicleta, nos quedábamos sin aliento».
Al principio nadie pensaba que la serie fuera a durar tanto: «Mi padre Ettore, que había llevado al padre Brown a la RAI, me enseñó que a la gente hay que mandarla a la cama con calma. Hablamos de dos grandes instituciones: la justicia combinada con la misericordia divina. No se trata sólo de encontrar a los culpables, sino de buscar su redención».
Ingredientes sencillos para una serie que 'nunca ha cambiado, sino que ha evolucionado, por lo que doy las gracias a los guionistas Mario Ruggeri y Umberto Gnoli. Después de 25 años seguimos consiguiendo un 25% de share'. Una garantía para la Rai, confirma Maria Pia Ammirati, de Rai Fiction: «Una vida televisiva de 25 años y 15 temporadas es un fenómeno impresionante. Nadie como Don Matteo encarna una idea equilibrada de la vida, hecha de aceptación, solidaridad, comprensión, responsabilidad y perdón».