“Il nuotatore di Auschwitz” è ispirato alla storia di Alfred Nakache, campione di nuoto ebreo nato in Algeria, e al libro “Uno psicologo nei lager” di Viktor E. Frankl. Sopravvissuti agli orrori di Auschwitz, entrambi incarnano diverse risposte alla brutalità: l’istinto di sopravvivenza da un lato, la riflessione filosofica dall’altro.
Al centro dello spettacolo, Alfred Nakache diventa simbolo di resistenza, forza e speranza. Deportato dai nazisti nonostante i suoi record sportivi, Nakache ha lottato per la vita in un ambiente che negava l’umanità. “Il nuotatore di Auschwitz” va oltre il racconto storico e affronta temi di scottante attualità. Le emozioni sono il cuore pulsante di questa pièce teatrale. Per saperne di più, abbiamo intervistato Raoul Bova.Raoul Bova, cosa l’ha spinta a portare in scena questo spettacolo?
«Già da tempo, insieme all’autore Luca De Bei e al produttore Michele Gentile, stavamo cercando un testo per il mio ritorno a teatro. Avevo un po’ di nostalgia del pubblico, avendo fatto lunghe stagioni televisive. Da qui, è partita la ricerca su un tema che potesse darmi quel qualcosa in più che magari in una fiction o in un film non avevo mai sperimentato e che potesse avere un messaggio forte da condividere con gli spettatori. Sentivo l’esigenza di raccontare una storia intensa, profonda. Abbiamo trovato le vite di due personaggi che hanno vissuto l’inferno di Auschwitz però ne sono usciti fuori. Il testo è il risultato di riunioni, scambi di idee e di emozioni. Paragonare il presente a quel periodo ci ha dato la possibilità di comprendere ancora meglio alcuni concetti esistenziali: cos’è la vita, come la stiamo vivendo e quanto la apprezziamo. Abbiamo raccontato i meccanismi della privazione dell’identità e della dignità di chi è sopravvissuto ed ha trovato un modo per vivere, apprezzando la quotidianità in maniera incredibile».
Come si è preparato per interpretare Alfred Nakache e Viktor Emil Frankl?
«Sono due personalità completamente diverse. Alfred si è salvato grazie al suo istinto di sopravvivenza; invece, Viktor ha ragionato sulle cose, ha fatto in modo che questa esperienza diventasse materia scritta. Quindi, rispondendo alla tua domanda, mi sono chiesto in che modo sia possibile sopravvivere in quelle situazioni, cosa scatta nella testa di chi viene privato della propria libertà, viene vessato, violentato, ucciso. Mi sono domandato cosa pensa colui al quale vengono portati via i propri cari. Temi a cui Viktor dà una risposta. Quindi, c’è questa dualità di anime: Alfred pone delle domande e Viktor spiega le dinamiche di quel periodo, cioè dell’internato».
Come ha lavorato a livello psicologico?
«Ogni tecnica utilizzata dall’attore per entrare nel personaggio deve essere animata da un cuore pulsante. L’attore non può limitarsi a recitare, deve immergersi completamente nei suoi sentimenti, abbracciando il testo in ogni sua sfumatura. Questo copione è complesso, denso di significato. Ogni parola, ogni gesto, ogni silenzio porta con sé un peso che va oltre la superficie. Entrare nella psicologia dei personaggi significa vivere il loro dramma, ma anche la loro capacità di sperare in un futuro migliore. Raccontare la vita nei lager è un’esperienza emotiva che ti travolge. E il bello del teatro sta proprio qui: ogni rappresentazione è diversa, unica».
Un aneddoto da backstage?
«Ci sono momenti in cui la sensibilità prende il sopravvento. Durante le prove, mi è capitato di scoppiare in un pianto senza fine, completamente travolto dalla scena e dal personaggio. Altre volte, il dolore era più profondo, più interiore, e l’emozione si faceva silenziosa, ma altrettanto intensa».
Raoul Bova, c’è qualcosa di questo spettacolo che ha cambiato il suo modo di vedere la vita o il suo lavoro di attore?
«Ogni attore, quando sceglie un testo, un film o una serie, lo fa
perché una parte di sé sente il bisogno di confrontarsi con quel tema.
Ci sono storie che magari non scegli, perché non ti senti pronto ad
affrontarle in un determinato periodo. Questo testo è arrivato nella mia
vita quando avevo una pausa dalle serie e dal cinema; l’ho “incontrato”
nel momento giusto».
Una scena particolarmente significativa o emozionante?
«Mi piacciono molto le analisi e le deduzioni dello psicologo Viktor perché riesce a dare voce agli stati d’animo degli internati, spiegando le loro storie e, soprattutto, l’istinto di sopravvivenza. Si parte dal concetto di sopravvivenza pura. Un bambino viene gettato nell’acqua e per salvarsi inizia a nuotare. Si parla degli uccellini che devono prendere il volo: il primo volo segnerà il loro destino. C’è chi apre le ali e vola, chi non ce la fa e si schianta a terra, e chi, invece, riesce a planare. Questi concetti, che uniscono l’esperienza universale dell’infanzia e le dure prove della vita quotidiana, sono estremamente toccanti. Le fughe, i ritrovamenti, i pensieri che Alfred dedica alla moglie e alla figlia sono momenti che arrivano al cuore».
Raoul Bova il nuoto è una parte importante della sua vita che ritrova anche in questo spettacolo. Dico bene?
«Sì, assolutamente. L’acqua è un elemento che mi ha sempre affascinato, con la sua doppia natura: la dolcezza che ci culla e la forza distruttiva che può avere. L’acqua è vita. Siamo fatti per il 90% di acqua, e per nove mesi siamo avvolti da un liquido nel ventre materno, un ambiente che conosciamo come nessun altro. Ma poi, quando nasciamo, sembra che dimentichiamo questa connessione. Eppure, l’acqua può essere sia una gioia immensa che una privazione della vita».
Una caratteristica che sente vicina ad Alfred Nakache?
«Alfred è un entusiasta, sempre pronto a lanciarsi nella vita con determinazione. Mi rivedo molto nel suo approccio istintivo».
Cosa spera che il pubblico porti con sé dopo aver assistito a questo spettacolo?
«L’obiettivo è che il pubblico non resti solo sorpreso dalla performance, dagli effetti speciali e dalla musica, ma esca dal teatro arricchito da una riflessione profonda. Auschwitz, purtroppo, non è così lontana come pensiamo. In che mondo stiamo vivendo oggi? Spesso, non apprezziamo le piccole cose che dovrebbero essere scontate, come tornare a casa e trovare qualcuno che ci aspetta e ci apre la porta. Eppure, in altri angoli del mondo, c’è chi sta soffrendo, chi muore di fame, chi è prigioniero, sia fisicamente che mentalmente, chi è vittima di bullismo e di violenza. Ecco, mi sono reso conto che, ogni giorno, ognuno di noi vive un piccolo “lager”. Ci sono situazioni da cui le persone non riescono a uscire. Alcuni soccombono, altri trovano la forza di sopravvivere. In questo spettacolo, abbiamo cercato di esplorare queste dinamiche. Il nostro scopo non è solo quello di raccontare una storia, ma di offrire un messaggio di speranza, un piccolo aiuto a chi sta affrontando la propria battaglia».
Progetti futuri?
«Al momento sono completamente concentrato su questo spettacolo, voglio dare tutto me stesso. Tuttavia, il prossimo anno ci sono già alcuni progetti in cantiere, qualcosa che sta per prendere forma e che spero di poter condividere presto».
Raoul Bova, il sogno nel cassetto che non ha ancora realizzato?
«C’è sempre un cassetto da aprire con un sogno dentro. Ogni età, ha un cassetto diverso con un sogno diverso. Quando vedi che stai correndo verso un obiettivo e le cose vanno bene, in realtà quel momento stesso diventa già un sogno realizzato».
«El nadador de Auschwitz» se inspira en la historia de Alfred Nakache, campeón judío de natación nacido en Argelia, y en el libro “Un psicólogo en los lagos”, de Viktor E. Frankl. Supervivientes de los horrores de Auschwitz, ambos encarnan respuestas diferentes a la brutalidad: instinto de supervivencia por un lado, reflexión filosófica por otro.
En el centro de la obra, Alfred Nakache se convierte en un símbolo de resistencia, fuerza y esperanza. Deportado por los nazis a pesar de su historial deportivo, Nakache luchó por la vida en un entorno que negaba la humanidad. El nadador de Auschwitz» va más allá del relato histórico y aborda cuestiones candentes de la actualidad. Las emociones son el corazón palpitante de esta obra. Para saber más, entrevistamos a Raoul Bova.
Raoul Bova, ¿qué le impulsó a montar este espectáculo?
«Desde hacía algún tiempo, junto con el autor Luca De Bei y el productor Michele Gentile, buscábamos un texto para mi regreso al teatro. Tenía un poco de nostalgia del público, después de haber hecho largas temporadas de televisión. De ahí que empezara la búsqueda de un tema que pudiera darme ese algo más que nunca había experimentado en un drama o en una película y que tuviera un mensaje fuerte que compartir con el público. Sentí la necesidad de contar una historia intensa y profunda. Encontramos la vida de dos personajes que vivieron el infierno de Auschwitz pero salieron de él. El texto es el resultado de encuentros, intercambios de ideas y emociones. Comparar el presente con aquel periodo nos dio la oportunidad de entender aún mejor algunos conceptos existenciales: qué es la vida, cómo la vivimos y cuánto la apreciamos. Relatamos los mecanismos de privación de identidad y dignidad de quienes sobrevivieron y encontraron una forma de vivir, apreciando la vida cotidiana de una forma increíble».
«Son dos personalidades completamente distintas. Alfred se salvó gracias a su instinto de supervivencia; en cambio, Viktor razonó las cosas, hizo que esta experiencia se convirtiera en material escrito. Así que, respondiendo a su pregunta, me pregunté cómo es posible sobrevivir en esas situaciones, qué pasa por la cabeza de alguien que está privado de libertad, que es acosado, violado, asesinado. Me pregunté qué piensa la persona a la que le arrebatan a sus seres queridos. Temas a los que Viktor da una respuesta. Así pues, existe esta dualidad de almas: Alfred hace preguntas y Viktor explica la dinámica de ese periodo, es decir, del «internamiento».
¿Cómo trabajó a nivel psicológico?
«Cada técnica utilizada por el actor para entrar en el personaje debe estar animada por un corazón que late. El actor no puede limitarse a actuar, debe sumergirse completamente en sus sentimientos, abrazar el texto en todos sus matices. Este guion es complejo, denso en significados. Cada palabra, cada gesto, cada silencio tiene un peso que va más allá de la superficie. Entrar en la psicología de los personajes es experimentar su drama, pero también su capacidad de esperar un futuro mejor. Contar la historia de la vida en los campos es una experiencia emocional que sobrecoge. Y ahí reside la belleza del teatro: cada representación es diferente, única».
«Hay momentos en los que la sensibilidad se apodera de mí. Durante los ensayos, estallé en un llanto interminable, completamente abrumado por la escena y el personaje. Otras veces, el dolor era más profundo, más interior, y la emoción era silenciosa, pero igual de intensa».
Raoul Bova, ¿hay algo en este espectáculo que haya cambiado su forma de ver la vida o su trabajo como actor?
'Todo actor, cuando elige un texto, una película o una serie, lo hace porque una parte de sí mismo siente la necesidad de enfrentarse a ese tema. Hay historias que quizá no eliges porque no te sientes preparado para abordarlas en un momento determinado. Este texto llegó a mi vida cuando hice una pausa en las series y las películas; lo 'conocí' en el momento adecuado'.
«Me gustan mucho los análisis y deducciones del psicólogo Viktor porque consigue dar voz a los estados de ánimo de los internados, explicando sus historias y, sobre todo, el instinto de supervivencia. Empieza con el concepto de pura supervivencia. Un niño es arrojado al agua y para salvarse empieza a nadar. Hablamos de los pajaritos que tienen que emprender el vuelo: el primer vuelo marcará su destino. Algunos abren las alas y vuelan, otros fracasan y se estrellan contra el suelo, y otros consiguen planear. Estos conceptos, que combinan la experiencia universal de la infancia y las duras pruebas de la vida cotidiana, son extremadamente conmovedores. Las escapadas de Alfred, sus hallazgos y sus pensamientos sobre su mujer y su hija son momentos que llegan al corazón'.
Sí, absolutamente. El agua es un elemento que siempre me ha fascinado, con su doble naturaleza: la dulzura que nos acuna y la fuerza destructiva que puede tener. El agua es vida. Somos un 90% agua, y durante nueve meses estamos envueltos en líquido en el útero, un entorno que no conocemos como ningún otro. Pero luego, cuando nacemos, parece que olvidamos esta conexión. Sin embargo, el agua puede ser a la vez una inmensa alegría y una privación de vida».
¿Una característica que siente cercana a Alfred Nakache?
«Alfred es un entusiasta, siempre dispuesto a lanzarse a la vida con determinación. Me veo mucho en su enfoque instintivo».
«El objetivo es que el público no sólo se sorprenda con la representación, los efectos especiales y la música, sino que salga del teatro enriquecido por una profunda reflexión. Auschwitz, por desgracia, no está tan lejos como pensamos. ¿En qué clase de mundo vivimos hoy? A menudo, no apreciamos las pequeñas cosas que deberían darse por sentadas, como llegar a casa y encontrar a alguien esperándonos y abriéndonos la puerta. Y sin embargo, en otros rincones del mundo, hay quienes sufren, quienes pasan hambre, quienes están presos, tanto física como mentalmente, quienes sufren acoso y violencia. Aquí me di cuenta de que, cada día, cada uno de nosotros vive un poco más «lager». Hay situaciones de las que la gente no puede salir. Algunos sucumben, otros encuentran la fuerza para sobrevivir. En esta obra hemos intentado explorar esta dinámica. Nuestro objetivo no es sólo contar una historia, sino ofrecer un mensaje de esperanza, una pequeña ayuda a quienes se enfrentan a su propia batalla».
«En este momento estoy completamente centrado en este espectáculo, quiero darlo todo. Sin embargo, el año que viene ya hay algunos proyectos en ciernes, algo que está a punto de tomar forma y que espero poder compartir pronto».
Raoul Bova, ¿el sueño en el cajón que aún no ha realizado?
Siempre hay un cajón por abrir con un sueño dentro. Cada época tiene un cajón diferente con un sueño diferente. Cuando ves que corres hacia una meta y las cosas van bien, en realidad ese mismo momento ya se convierte en un sueño realizado».